LUDOVICO MICARA (1837-1844)

Nacque a Frascati il 28 luglio 1775 (il Moroni e l’Enciclopedia Cattolica scrivono il 12-10-1775) da una benestante famiglia frascatana. Il padre Gianfilippo e la madre Gaetana Lucidi battezzarono nella cattedrale di Frascati il neonato. Il battezzante fu l’arciprete don Francesco Lucidi, zio di Ludovico. La sua famiglia abitava il palazzo Accoramboni nel rione Spada. Una sorella, Maria Giovanna, si fece suora nel monastero di S. Flavia Domitilla, situato proprio dove oggi c’è l’edificio scolastico. Dagli Scolopi fece le classi elementari e da esterno frequentò il seminario tuscolano. Proprio in questo ambiente, si maturò la sua vocazione. A diciotto anni entrò nel convento dei padri Cappuccini che era a Frascati fin dal 1575. Indossando il saio prese il nome di Ludovico da Frascati. Al termine andò a studiare a Roma. I suoi studi furono turbati dalle campagne napoleoniche del 1798. Il Micara, essendo stata proclamata la Repubblica, terminò gli studi a Napoli, ove, alla fine del 1798, venne ordinato sacerdote. Dopo l’ordinanza napoleonica del 1810 Ludovico ritornò a Frascati non con il saio, per l’abolizione dei conventi, ma con quello talare dei sacerdoti e assunse le veci di arciprete della cattedrale in quanto il titolare era stato esiliato. A sua volta venne fatto oggetto di persecuzione, perché si oppose ai Te Deum per le vittorie napoleoniche, e dovette fuggire per le campagne come un bandito, cercando ogni giorno un tetto ed un fuoco. Fu arrestato, imprigionato, ma riuscì a fuggire e si andò a nascondere nel non facile lido di S. Severa. Sconfitto Napoleone e calmatesi le acque, padre Ludovico indossò nuovamente il saio cappuccino e si dette alla predicazione. Nel 1819 venne destinato all’ufficio di Postulatore per la santificazione dei Cappuccini e nel frattempo venne eletto ministro provinciale. Nel 1820 Pio VII (1800-23) lo nominò predicatore del S. Palazzo Apostolico. Leone XII (1823-29) aveva avuto padre Ludovico come suo teologo, quando era ancora cardinale, e divenuto Papa onorò della sua amicizia il buon Ludovico. Il suo abituale modo di dire «pane al pane e vino al vino» non piacque ad alcuni eminentissimi cardinali, i quali chiesero al Papa che gli decretasse una giusta punizione. Il Papa per tutta risposta il 1824 nominò Ludovico ministro generale dell’ordine dei Cappuccini e lo fece con una procedura rara. Nel 1826 lo elevò alla porpora assegnandogli il titolo della diaconia dei SS. Quattro Coronati. Non solo Ludovico restò ministro generale e predicatore apostolico, ma fu nominato anche membro di Congregazioni importanti. Chiese ed ottenne dal Papa di vestire l’abito cardinalizio di color marrone anziché rosso porpora. Prese parte a tre conclavi. Sotto Gregorio XVI (1831-46), il 2-10-1837, fu nominato cardinale vescovo della diocesi di Frascati. Il Capitolo tuscolano gli fece pervenire le più sincere e vive congratulazioni e così fece la municipalità tuscolana. Il Consiglio Comunale stabilì due giorni di festa per la circostanza. Anche da cardinale il Micara non cessò di alloggiare nel convento dei Cappuccini in piazza Barberini. Volle ricevere la sua consacrazione a vescovo nella cattedrale di Frascati. A consacrarlo, il 15-10-1837, fu il cardinal Bartolomeo Pacca, che era stato vescovo di Frascati dal 1818 al 1821. Subito dopo prese possesso canonico nella cattedrale tuscolana. Divenuto vescovo egli riservò la sua eloquenza alla diocesi. Si mise al servizio dei suoi figli spirituali, ma esigeva, come lui stesso faceva, precisione e disponibilità. Si oppose in tutti i modi al progetto di radere al suolo la chiesa di Capocroce per fare al suo posto una piazza e una scalinata. Criticò con asprezza la spesa di 50-60 mila scudi per quell’opera. Lo scopo recondito di questa impresa, era quello di stornare una conduttura di ottima e salutevole acqua per farla cadere in mano di interessati speculatori. Sosteneva che i denari «gettati» per una nuova via di accesso potevano essere utilizzati, molto meglio, nella costruzione di un mulino, che avrebbe fruttato alla comunità dai due a tre mila scudi annui. Per questo motivo accusò gli amministratori di peculato. Propose una lista delle necessità: Ospedale, ricovero per fanciulle povere, orfane ed abbandonate, riparare le mura della città e le case, riparare le strade interne rese impraticabili, riparare la campana di S. Rocco ed eliminare l’umidità esistente dietro l’abside della stessa chiesa, diminuire le tasse imposte per lavori non essenziali, salvaguardare il Santuario di Capocroce. Nel 1839 fece iniziare i lavori con 12.000 scudi per la costruzione dell’ospedale S. Sebastiano Martire e ne stilò il regolamento. Con i residui di una colletta fatta dal suo predecessore card. De Gregorio e con un suo personale e sostanzioso contributo fece riparare la campana di S. Rocco. Era sua intenzione di isolare sia la chiesa che il campanile di S. Rocco, eliminando le costruzioni addossate, ma non gli fu possibile. Il perdurare di questa situazione di rifiuto di intervento da parte delle autorità comunali provocò la perdita dell’affresco rinascimentale che occupava tutto il catino dell’abside. Si deve al card. Micara se le venerate immagini di S. Rocco e S. Sebastiano, scopertesi prodigiosamente nel 1656 si sono salvate. Il cardinale provvide a dare, nella cattedrale, una sistemazione al cosiddetto «Stanzone», sito nella parte opposta delle sacrestia, ricavandone una cappella sul cui altare fu posta la sacra immagine della Madonna Addolorata, venerata in cattedrale fin dai primi del 1700, e a far sistemare la cappella, o «coro invernale», per i canonici e i beneficiati. Sopra la cappella, ora del «Santissimo Sacramento», fece costruire un fabbricato di vari piani, le cui stanze furono messe a disposizione del Capitolo. Acquistò personalmente il calice d’oro, la patena, le ampolline ed il piattino donati dal cardinale Stuart alla cattedrale e messi in vendita dal card. Cesarmi per venerare la memoria dello Stuart da lui conosciuto, amato e stimato quando da ragazzo frequentava il seminario tuscolano. Alla sua morte ne fece dono alla cattedrale stabilendone l’uso per le sole feste solenni e proibendone assolutamente la vendita. Poi, nel 1894, con il permesso pontificio, questi oggetti così preziosi furono venduti per far fronte alle ingenti spese di decorazione della cattedrale. Dette nuovo impulso al seminario Tuscolano che fu, per lui, la sua famiglia: ne fu direttore e Padre. Alieno da ogni forma di fasto vestiva sempre il saio e manteneva gli usi dei Cappuccini. Ripristinò il Monte di Pietà e, per provvedere alla ristrutturazione dei locali, chiese al Papa l’aumento del tasso d’interesse dal 3 al 5%, cosa che gli venne concessa, ma per soli 5 anni. Allora, al fine di evitare spese, ospitò il «Monte di Pietà» nel palazzo Vescovile, in due stanzette e, poiché non esisteva fondo cassa, lo dotò di tasca sua di 2 mila scudi. Ogni anno, dal bilancio del «Monte» fece versare una dote di 10 scudi per due ragazze meritevoli, una per parrocchia. Una preoccupazione pastorale fu quella che la gioventù frascatana partecipasse ogni domenica alle lezioni di Dottrina Cristiana. Organizzò una società di studiosi che si interessavano del Tuscolo antico e nuovo e la chiamò «Accademia Tuscolana». Provvide ad una più congrua distribuzione delle prebende tra canonici e beneficiati. Nonostante la sua paziente opera di mediazione non riuscì a sanare la questione sul diritto di tumulazione fra i due parroci. Dopo la sua morte fu promossa l’opera del «Ricovero per le fanciulle orfane e abbandonate». Il Moroni scrive che fu amorevole con la famiglia che beneficò con preziosi vitalizi, destinando la parte più cospicua dell’eredità al conservatorio di Frascati e ad altri Pii Istituti. Era di aspetto solenne, con una bella barba. Praticamente visse o nel Seminario Tuscolano o presso i Cappuccini a Roma. Morì il 24 maggio 1847 all’età di 72 anni. Quando morì era decano e vescovo di Velletri fin dal 1844. Fece una visita pastorale nella diocesi. La relazione è in data novembre 1843. Da essa si ricava che i confini della diocesi sono; da est a sud con Preneste, Segni, Velletri e Albano; da sud ad ovest con Roma; da ovest a nord con Roma e Tivoli. In ogni città stabilì che ci fossero i ludi magistri per i ragazzi e, per le fanciulle, le maestre pie, che dovevano abitare in pii istituti, vestire di nero ed essere scelte dal vescovo. Nel seminario, ampliato e dotato di biblioteca, c’erano 14 alunni e 57 convittori. Le agostiniane erano 27, i Cappuccini 21, i francescani osservanti 20, gli Scolopi, che insegnano ai fanciulli erano 5, i Teatini 1. L‘ospedale, fino al 1816, era amministrato dalla confraternita del Gonfalone, poi, fu amministrato dal municipio. Il cardinale, come già detto prima, lo amplierà e migliorerà. Per gli altri paesi nulla di nuovo. Ha ritenuto di non convocare un sinodo. Loda parroci e clero per il lavoro che svolgono. Loda anche il popolo che non gli procura preoccupazioni se non in rare e piccole eccezioni